Vuoto

Non sono che il vuoto
Che ti contiene
I girini gemelli del tuo nome
Guizzano sfuggenti
Nel cerchio infinito
Di yin e yang, di bianco felice
E di nero atroce. Nel punto
Mai sazio, di spazio completo
Di tempo infinito
Che gira incessante
Marea su marea, alta poi bassa
L’uccello che corre alla riva
E torna per non bagnarsi

Solo il vuoto che ti contiene
La riga attorno al tao
Che vede e non si muove
La carta dove ancora e ancora giri
In cerchi perfetti
Senza punti di ristoro

Sono quel nulla nientificato
La strada che calpesti
Nell’anello a circuito
Il vuoto
vuoto e pieno
Di tempo e senso.

(Dove sei, ora?)

Disegnato

io penso che non ti sarebbero piaciute
queste versioni che immagino del tuo alter ego
e vorrei che tu fossi qui per dirmelo
e insultarmi per la mia leziosaggine

quei neuroni che ti dicevo
li ho bruciati, li ho dimenticati
si sono perduti, lontani
a volte mi mandano una cartolina
di quelle bianche, te le ricordi?
e le poste, tanto, funzionando male
non me la recapitano

Ombre

E quando mi chiederò
Sporcandomi le mani delle tue spire
Passando e ripassando
Lisciando i pochi ricordi rimasti
Lasciando, infine, che sacra e tenera
La mia mente si sfaccia

Allora mi chiederò
Davvero come stai
Se ti vuoi bene
Non come io te ne ho voluto
Ma come un’occasione migliore
Un fato decisamente più dolce

E le mani, sul tuo fantasma
Affondate in quel che spero
Essere la tua carne
Fredde
E io bollente
Di dolore.
*
Questi stupidi e amatissimi
Ricordi
Non mi si dica che sono il meglio
Che ho
Oppure il peggio
Non sono niente
Solo impulsi elettromagnetici
Nel cervello di una umana qualunque
Il meglio, certo, il nulla
Quello sarebbe il meglio

Ma non c’è rimedio
Alla mia infinita limitatezza
Così me li tengo
Ho solo questi impulsi
Sia mai che l’ombra di te
Non sia davvero l’ombra di te.

Giorno

Finissima la quiete
Membrana tenue e rosea
Si intravede la luce
Che innalza un chiaro
Canto, è vero, in chiaro

Eppure il nero
Un poco si irraggia
Capillari di nera bile

La palpebra vibra
E sfarfalla

Anche oggi
Sono sveglia
E taccio inquieta

Zia G

Zia Griffonia è in cura
per molto tempo è stata bene,
navigava a vista nei mari
del sud e del centro
e correva rischi impraticabili
prima d’essere euforia pura.

Mi prende per le mani
quando mi incontra per strada
lascia andare tutti i pacchi
e grida con me, come se cantasse
strani riti africani, ulula
e gira, giriamo in tondo fino a cadere
mi viene la nausea, però miglioro
e rimembro, per qualche momento,
che la felicità si sceglie.

Poi zia piange, e piange e piange
e la abbraccio tra le cartacce e i piccioni:
lei così piccola e ineffabile
una specie di straccetto implume
con gli occhi liquidi e paludosi.

È la più patetica delle mie zie
però a lei voglio un bene speciale
perché non si arrende al creato
e continua a pensare che sia romantico
spendere il tempo a urlare
contro il cielo notturno
quanto sia orrendo vivere.

*

Ancora lei, la incontro, zia Griffonia
Va per la strada, però un po’ legnosa
Come se l’avessero legata
E mi dispiace, le pagherei qualcuno
Per toglierle i lacci che ancora ha addosso

Però lei non si scoraggia
Mi butta le braccia al collo
E felice di lacrime nelle lacrime
Si sente così integra
Seppure disperata

Le offro un po’ di aiuto
Non accetterebbe altro da me
Esisto troppo forte, mi dice
Che sono certa mi estinguerò
Come un sole ormai bruno
Stanco di scaldare questo atomo di pazzi.

Mi dispiace un po’ per la zia
Eppure d’improvviso, la sera a casa mia,
Mi accorgo che è lei la dispiaciuta
La sua, di musica, non è d’angeli
Ma sopitamente armoniosa e in sussurro
Mi dico “lei ha una musica tutta sua”
E io quando mi leverò a vivere puramente?

2016-2022

(con citazioni nascoste di Luzi e Sereni)

Se tu

Se tu fossi pizia
Io ti starei accanto
Quando il canto onirico
E l’acido androgino
Ti fanno urlare
E dimenare, di lividi incerta
Perduta, come un giorno d’eclissi

Nera e solida
Sudata di sangue d’angelo
Potrei stringerti
Con gli occhi neri di pece
Con l’atropina ad accelerarti il cuore.

E ancora, mentre sola,
Vaghi nel delirio claustrofobico
Nel labirinto del verdeggiante morire,
Lì troveresti la mia corda d’oro
Di capelli e stelle, a darti la mano
Vorrei essere lì.

Grani

E quando di poesia
Non ne hai neanche un grano
E con le tasche vuote
Che ti sbatacchiano
Ali moleste del senso vuoto

E di sola materia oscura
Sono fatti i tempi
Ore e ore fuori da te
Che non controlli più

Allora, proprio ora,
Ti aggrappi alla minuscola luce
Quel lucore d’immagini
Una, due e tre
La voce chiara
D’un amico lontano.

Occhi

Sono in questa casa
Tra pareti di vetro
E la mia pelle,
Oh, quella che dicevi
– Coprila, ti vedranno! –

Lei, è sottile
Una traslucida velina
E tu, così, con le mani
A tenere le mie
E intanto la benda
Sugli occhi

Coprili, ti dico,
Coprili, acquamarina
Coprili, ti prego
E lasciami.

Io sto bene
Anche sola
Anche nel silenzio
Di vetri rotti.

Al buio
Con i pensieri
Di cristallo.

Squadernìo

Una lunga lettera
Del resto c’è molto da dire
Vergata, un concetto per volta
La casa, la luna e io
Di carne, l’inchiostro
Su pergamena, perché duri
I secoli necessari ché io capisca

Che di te, neanche in sogno
Voglio avere più notizia.
Stavo bene, stranamente
Di lucida calma
Come un killer sentimentale
L’ho seppellito, ormai, quel ricordo.

Eremo

Scrivimi, dal tuo eremo
Ogni tanto, quando i sutra ti danno tregua
E non c’è altro su cui meditare
Quando il tempo smette di ponzare
E tu scorri come me nel fango
Che la tua veste si schizzi un poco

Te lo auguro, non perché mi manchi,
Più perché ti ricordi
Un giorno con l’altro
Che persino l’oltre
Ha dei limiti, degli angoli
Dei bui scantinati

E da quella porta aperta
Per soli pochi centimetri
L’aria del mondo
Forse anche il suo odore
Respira e spira
Con me, per te.

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