“Può esistere un lutto della mente, dell’esistenza umana, del senso di vivere?”
Si chiese Ottavia al volgere del giorno. Nella sua casa sull’oceano, in uno dei tramonti travolgenti che ogni sera inondano di luce dorata le pareti candide, era tormentata.
Aveva fuggito la vita, lo sapeva bene. Non sopportava più le dinamiche untuose e presuntuose del mondo normale: gli sguardi di cordoglio di plastica, i centri nervosi fibrillanti nella difesa continua del proprio micragnoso territorio fatto di consuetudini, vizi, conquiste sanguinolente, e infine la sensazione che l’aria fosse troppo piena dei respiri altrui.
Non ce la faceva più, banalmente. Non voleva ritirarsi dal mondo per un ipotetico ascetismo. Voleva non essere più nel mondo, annullarsi con cautela e senza pubblicità come identità totale, sciogliersi in volute di fumo e indolenza, come nelle pubblicità dell’assenzio della Belle Epoque.
Appoggiata alla portafinestra, fingeva di non avere più un nome.
Aveva la sensazione che sarebbe rimasta lì per sempre, in quel momento eterno.
Poi sentì un rumore, un fruscio di ali e zampe felpate.
Girandosi, il gatto si avventò per sbaglio su di lei, lo prese in braccio. Quel corpo piccolo, morbido, delicato e insieme letale, gli occhi di giada puntati nei suoi.
Forse un motivo lo aveva, per non essersi dissolta nel tempo come sale nel mare.
-Ciao, coccolone, sì, anche io ti voglio bene.
Il micione trillò di gioia, socchiuse gli occhi e si fece accarezzare a lungo.
Ottavia non era ancora convinta che il lutto l’avesse lasciata. Un senso ancora non lo aveva.
Uscendo sulla spiaggia, aveva la massa d’acqua nera di fronte a sé. La sovrastava, come il più onnipotente degli dei lovecraftiani, altrettanto incapace di pensare oltre alla sua folle danza, biascicante e gnaulante, incosciente dell’esistenza del cosmo oltre a lui.
“Proprio come gli esseri umani che ho lasciato, incapaci di entrare nelle menti degli altri”.
Perché Ottavia era stanca di poter capire il prossimo e trovarlo così deludente, così uguale a sé stesso, capace solo di giustificare la propria pochezza con un ‘siamo tutti esseri umani, chi non si darebbe al peculato, potendo!’. E lei rispondeva ‘io no, per esempio’.
L’esistenza di un vasto cielo di ottimi propositi non gli faceva nemmeno venire il dubbio di essere degli impostori.
“Esiste qualcosa oltre la delusione? Esiste un momento di comprensione, gioia, sfinimento per la stessa che non sia inquinato dall’egocentrismo pigro?”
Come se fosse stato diverso per lei. Invece di cambiare le cose, era scappata via.
Le mani scarne e mangiate dalla lebbra le salirono al viso, pieno di cicatrici e senza più naso.
“Invece di cambiare le cose, sono scappata via”.
Da lontano la sagoma del gatto si stagliava contro la massa nera dell’oceano.
racconto gradito, ma la lebbra mi ha spiazzato. A ripensarci credo che vada interpretata simbolicamente. malattia antica e deturpante la lebbra che costringe all’isolamento. e forse le cicatrici sono più mentali che fisiche.
ml
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Chi lo sa. È uscito senza una particolare intenzione, mentre scrivevo. Potrebbe darsi
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